lunedì 28 marzo 2016

Jean-Dominique Bauby, Lo scafandro e la farfalla

Un librino pieno di poesia per questa pasquetta chiaramente uggiosa. Poesia di cui abbiamo sempre più bisogno in questi tempi che tendono al buio, e dove almeno i libri ci riportano un po' di luce. Lo scafandro e la farfalla di Jean-Dominique Bauby [traduzione di Benedetta Pagni Frette, Ponte alle Grazie, 2007] è una di quelle storie che leggi con il sorriso sulle labbra, talvolta amaro, talvolta gioioso, talvolta malinconico, talvolta sognante. Ho voluto leggerlo parecchi anni dopo aver visto il film che ne è stato tratto, diretto da Julian Schnabel, del 2007 (il libro è di dieci anni prima), vincitore del premio per la miglior regia al 60° Festival di Cannes.


La situazione: io la Eli e l'Annina ci troviamo a Nottingham, Nottinghamshire, nel febbraio del 2008, per festeggiare la prima sessione di esami all'Università (ora dire università è una parola grossa, dato che noi abbiamo fatto LEP^^) e per leggere nella pace della campagna inglese l'ultimo libro di Harry Potter, dopo la promessa di non toccarlo durante lo studio per gli esami. Stiamo male lo so ma ci vogliamo bene per questo. Ebbene, a Nottingham conosciamo un baldo giovane russo che lavora nell'ostello dove alloggiamo, e oltre a sbronzarci insieme con del vino sudafricano di dubbio gusto una sera siamo pure andati al cinema tutti insieme allegramente, "no bimbe vi giuro questo film è una figata dobbiamo assolutamente vederlo". E così ci ritroviamo in un minuscolo cinema a piangere copiose lacrime e ad ammirare una storia delicatissima, poetica e appunto commovente. E il libro non è ovviamente da meno, dato che è scritto proprio dal protagonista della storia, Jean-Dominique Bauby, direttore di Elle negli anni Novanta, colpito da un ictus, caduto in coma profondo e risvegliatosi in "quella che la medicina anglosassone ha giustamente battezzato locked-in-syndrome: paralizzato dalla testa ai piedi, il paziente è bloccato all'interno di se stesso, con la mente intatta e i battiti della palpebra sinistra come unico mezzo di comunicazione". Un uomo che conduceva una vita sfrecciando a mille all'ora, ora si ritrova a Berck, il comune francese sul mare dove è ricoverato e dove trascorre una nuova vita dentro il suo corpo tramutatosi improvvisamente in pesante scafandro, che talvolta "si fa meno opprimente, e il pensiero può vagabondare come una farfalla". 
Un "viaggio immobile", quello di Bauby, in cui però 
C'è tanto da fare. Si può volare nello spazio e nel tempo, partire per la Terra del Fuoco o per la corte di re Mida. Si può fare visita alla donna amata, scivolarle vicino e accarezzarle il viso ancora addormentato. Si possono costruire castelli in Spagna, conquistare il Vello d'oro, scoprire Atlantide, realizzare i sogni di bambino e le speranze di adulto. 


Bauby, morto poco dopo aver pubblicato il suo libro, è riuscito a mettere a punto un sistema di comunicazione particolare, che si basa sul battito di ciglia dell'unico occhio che riesce a muovere. Una volte per sì, due per no, e grazie all'alfabeto recitato secondo l'ordine di frequenza della lingua francese riesce a comporre frasi compiute, sbloccando momentaneamente la granitica immobilità in cui è costretto. In questo modo, con l'aiuto della sua assistente Claude Mendibil, riuscirà a dettare tutti i paragrafi del suo sorprendete romanzo. Immaginazione, ricordi, angosce, paure, speranza, ma soprattutto Bellezza. Quella Bellezza che nella vita quotidiana ci appare troppo spesso lontana e irraggiungibile, ma che basta pochissimo per riafferrare
Ho adorato viaggiare. Per fortuna ho abbastanza immagazzinato nel corso degli anni abbastanza immagini, esalazioni, sensazioni per poter partire nei giorni in cui da queste parti un cielo color ardesia impedisce ogni prospettiva d'uscita. Sono degli strani vagabondaggi. L'odore stantio di un bar newyorkese. Il profumo di povertà del mercato di Rangoon. Pezzi di mondo. La notte bianca e ghiacciata di San Pietroburgo o l'incredibile incandescenza del sole a Furnace Greek nel deserto del Nevada.
Un libro importante, delicato come una farfalla e pesante come uno scafandro, che ci ricorda che non è necessario aspettare la fine per renderci conto di approfittare sempre, e abbestia, di qualsiasi meraviglia che il mondo ci riserva. Anche quando si pensa di aver toccato il fondo, il punto di ritorno, l'abisso più buio. No. C'è sempre il modo di risalire. Se ha potuto farlo Jean-Do, lo possiamo fare anche noi.
Buona scampagnata a tutti, che la pioggia non ci fermi!

B.  

   

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