lunedì 4 aprile 2016

Merritt Tierce, Carne viva

Questa è la tipica recensione che ti fa stare per minuti con le mani sulla tastiera senza riuscire a scrivere niente, tante sono le cose che ci sarebbero da dire. Perché da una parte in realtà non vorrei dirvi proprio un bel niente, se non leggete assolutamente questo libro, dannazione! Ma dall'altra il mio dovere da bookblogger mi costringe a sbrodolarvi addosso le sensazioni di un romanzo assurdo per quanto è bello, e quindi vado. 



Carne viva di Merritt Tierce [traduzione di Martina Testa, BigSur, 2015] è il romanzo di esordio di questa trentacinquenne texana. In rete trovate un sacco di sue interviste, che vi consiglio ovviamente, ma come mi ha insegnato il mio professore di Teoria della Letteratura, è meglio concentrarsi solo sul testo, e non sul suo autore. Vi dico soltanto che il titolo originale è Love me back, e che negli Stati Uniti ha avuto un successo pazzesco. Questo titolo inaugura la collana BigSur delle mie amate e idolatrate Edizioni Sur: "con questa collana squaderniamo la nostra mappa avventurandoci nella cultura angloamericana, con uno sguardo alla letteratura di ieri e di oggi, alla narrativa di genere, alle biografie e autobiografie di artisti, musicisti, cineasti". E niente. Che bisogna dirgli? Bravi diobonino!!!
La trama di Carne viva è molto semplice: Marie, la protagonista, ragazza modello che sta per entrare al college, rimane incinta durante un periodo di volontariato in Messico, a soli 16 anni. Andrà ad abitare con il suo ragazzo e la sua bimba, e inizierà a lavorare nei ristoranti per mantenersi. Ma il disagio è in lei abbestia, perciò a un anno dal matrimonio inizia a scopare in giro come se non ci fosse un domani, a bere e a drogarsi saltuariamente, e a spaccarsi la schiena al lavoro, il suo modo per tenersi in vita:
Non è che all'epoca mi piacesse tanto servire ai tavoli: ma almeno avevo un posto dove stare. Una funzione nella vita. Non capivo come si faceva a essere una moglie o una madre. Ma per essere una cameriera c'erano regole ben precise. La principale era non fare cazzate.
Insomma, una trama molto lineare, in cui però si innesca uno stile deciso, minimale ma intenso, tanto semplice da lasciare il lettore spiazzato, turbato, perso. Ho sentito di sgamo allo stand di Sur, al Book Pride, una ragazza che diceva di non essere riuscita a finire il libro, perché le ha fatto male. Sì, è vero, Carne viva fa male, ferisce come Marie ferisce se stessa, bruciandosi per concentrare il suo dolore in un unico punto. Ferisce perché ciascuno riesce a immedesimarsi in una storia lontanissima dal nostro mondo, il mondo della ristorazione statunitense, una bolgia infernale in cui convivono persone provenienti da ogni angolo di mondo, e in cui il colore della pelle è ancora segno di diversità e discriminazione. In cui devi essere perfetto in qualunque momento per guadagnarti delle buone mance. Durante il Coast to Coast, nel 2013, io e Luke ci abbiamo messo un sacco di tempo a capire come gestire le mance, nonostante ci fossimo informati prima di partire. Un mondo totalmente a parte in cui però Merritt Tierce ci immerge completamente, in una sorta di iperrealismo spinto, crudo, come la carne che viene presentata ai clienti da Marie, su di un vassoio troppo pesante per il suo esile corpo. Un mondo ancora diviso in classi sociali, in un vortice di chirurghi, avvocati, faccendieri, nuovi ricchi, capi clan. Troppo spesso viscidi e ubriachi. Un mondo in cui Marie si districa apparentemente senza problemi, diventandone protagonista con il suo concedersi senza pudore, facendo sesso con uomini sposati, lavapiatti, colleghi di colore, avventori occasionali. Tenendosi su pippando un po' di coca, facendo carriera e passando dalla catena italiana per famiglie fighe a una delle Steakhouse più rinomate di Dallas, dove il libro è ambientato. 





Faccio una piccola parentesi: di solito, come chi mi legge da un po' saprà, per quanto riguarda la letteratura americana prediligo le storie ambientate nel nulla degli Stati Uniti, in quel middle of nowhere raccontato dalla Strout, da Haruf, dal mio adorato Faulkner. Qui invece siamo in piena metropoli, i protagonisti appartengono alle più disparate etnie, lingue, un caleidoscopio di colori, disagio, fatiche, arrivismo, esistenze al limite, grottesche, eccentriche, tristi. Tutti, come Marie, sentono il bisogno di essere qualcuno, di appartenere a qualcosa, qualsiasi cosa, per non essere schiacciati dalle altre migliaia di vite con cui devono condividere il loro spazio vitale. E Carne viva ci descrive magistralmente tutto questo. Senza mai scadere nel volgare, seppur il linguaggio usato sia molto forte. Ma sinceramente non riesco a pensare a nessun altro modo in cui questo romanzo potesse essere scritto. La vita stanca di Marie, il suo non riuscire a fare da madre, da moglie a un marito perfetto, il suo scegliere continuamente il lato oscuro, affiancando momenti di intimità e infinita dolcezza quando pensa alla figlia, è commovente al punto che alla fine non ci resti nemmeno poi così male nel scoprire che il lieto fine non c'èCarne viva è un libro che potrebbe continuare all'infinito, e continuerebbe a raccontare sempre la stessa storia di redenzione inarrivabile, di fatica, di dolore, ma anche di profonda Bellezza. Io sinceramente sono riuscita a trovarla, nei momenti in cui Marie allatta la bimba, legge un libro in biblioteca, riconosce le musiche suonate dal pianista al Ristorante, o si fa una doccia dopo una nottata di follie. 
Ok, mi rendo conto di aver scritto senza seguire un filo conduttore, aiuto! Ma niente, quando i libri sono belli e veri e devastanti è così. Non ci si può fare nulla. E quindi basta, riparto dal mio consiglio iniziale: leggete abbestia questo romanzo, non abbiatene paura e vi ripagherà con un'amica in più, e magari con una seduta di auto-coscienza per capire a che punto è la vostra vita. Questi però sono dettagli trascurabili :). 

B. 

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