mercoledì 12 novembre 2014

#Pbf2014 - 8 novembre: Elena Stancanelli, Massimo Loche, Morten Brask

Ed eccoci all'attesissimo momento (...) della cronaca degli incontri a cui ho assistito sabato 8 novembre, tra un'intervista e l'altra (non mi sto affatto dando un tono!). Nell'ordine: 
  1. Ore 12.00, Repubblica CaffèFIGURACCE (Einaudi, 2014): Laura Montanari e Fabio Galati intervistano l'autrice Elena Stancanelli.  
  2. Ore 14.00, Book Club. PER VIE DI TERRA: In treno da Hanoi a Mosca (Voland Edizioni, 2014): ricordi di viaggio di un inviato speciale attraverso la Cina di Mao e l'Unione Sovietica di Brezhnev. Massimo Loche, giornalista e nel 1974 corrispondente de L'Unità in Vietnam, in conversazione con Ezio Menzione, avvocato e viaggiatore. 
  3. Ore 15.00, Book Club. LA VITA PERFETTA DI WILLIAM SIDIS (Iperborea, 2014): La storia di un bambino prodigio, con il quoziente d'intelligenza più alto mai misurato, una delle menti più eccelse mai esistite. L'autore Morten Brask ne parla con Bruno Berni



Partiamo dall'inizio. L'atmosfera creata nella saletta che ospita Repubblica Caffè è davvero deliziosa: il bianco è il colore prevalente, il neon sparaflashato non disturba più di tanto, ci sono piante da condominio, tavolini e poltrone, e le persone già accomodate sembrano essere proprio a loro agio. Così tutta festante mi unisco anch'io, e mi preparo ad assistere ad uno dei momenti più divertenti di tutto il Festival. L'occasione infatti è quella di presentare il libro Figuracce, una vera e propria antologia delle figure di merda. Leggere la prefazione di Niccolò Ammaniti è già di per sé esilarante: dopo aver riflettuto sul concetto di figura di merda e sulle sue conseguenze antropologico-sociali, Ammaniti spiega com'è nata l'idea del libro: 
«per caso, in una calda serata di un agosto romano. Tutti quelli che partecipano a questa raccolta si sono ritrovati spontaneamente in agosto al tavolo di un bar di Campo de' Fiori a bere Margarita e Gin Tonic. [...] Il mestiere dello scrittore, secondo me, per essere tale deve essere cosparso, come un wüsterl di senape, di figure di merda. [...] L'idea di questa raccolta è nata così. Ognuno di noi si è preso il compito di raccontare un fatto, una storia che lo ha imbarazzato e che ha voglia di condividere con i lettori, come ha fatto con noi quella sera. La vita, in fondo, non è che uno slalom tra figure di merda». 
Adoro. Ma poi capito. Io. Mi sono scelta proprio l'incontro perfetto! Ed Elena Stancanelli, l'unica donna a rappresentare la figura di merda in versione femminile, è irresistibile. Inizia dicendo che le figuracce non sono una sciocchezza, sono il precipitato della personalità. Apparteniamo ad un tempo in cui il concetto di dignità è trattato in modo superficiale: la televisione, già di per sé, è una figuraccia. Abitiamo un tempo nel quale il rispetto per se stessi è finito inesorabilmente in secondo piano. Per avere un esempio di ciò che era la dignità, la scrittrice suggerisce di leggere Il posto di Annie Enraux (L'Orma, 2014), in cui una figlia racconta la morte del padre in maniera autentica e raffinata, caratteristiche che ormai non appartengono più alla nostra generazione. 



E così Elena Stancanelli, che mi affascina a dismisura, inizia a raccontare le sue figure di merda letterarie. Ho letto la sua parte di Figuracce, intitolata Cappelli, e devo dire che sono rimasta davvero colpita dalla differenza di registro che ho avvertito tra orale e scritto: se alla presentazione il suo tono era esilarante, nel libro risulta più grave, ma il contenuto era esattamente lo stesso. Quindi mi dispiace, ma non vi anticiperò niente di ciò che ha raccontato, perché i suoi aneddoti catastrofici meritano davvero di essere letti: le sane risate, e il sentirsi meno soli, fanno sempre bene. Praticamente mi strozzo dalle risate quando Elena Stancanelli afferma di «praticare l'umiliazione letteraria con molto piacere» :D. Mi sembra giusto quindi, non appena giunge il mio turno per farmi autografare il libro, di dirle che pensavo di essere la regina delle figure di merda, ed invece... ed invece, Bea, bella figura di merda (tutto questo mentre le consegno il cappuccio della penna invece che la penna stessa. Applausi). Andiamo avanti.

Dopo l'incontro mi concedo un pranzetto con la mia amica Corinna, il tempo di respirare, godermi il solicino e guardarmi intorno: vedo un sacco di gente, lettori di ogni età, sento il chiacchiericcio piacevole dei giorni di festa. Mi immergo nella pace dei sensi, mi aggiorno con Corinna, rido tantissimo e poi riparto. 


Adesso è il momento di un evento a cui avevo deciso di partecipare per pura e semplice curiosità rispetto al tema trattato, quello del viaggio in treno. Un viaggio «alla scoperta di un mondo che oggi non esiste più ma che è rimasto nell'immaginario di tutti». Come infatti sottolinea Ezio Menzione, Massimo Loche, nel ripercorrere i Paesi attraversati con l'inusuale mezzo di trasporto nel 1974 (Vietnam, Cina, Mongolia, Russia) ci racconta uno scenario totalmente diverso da quello che oggi ci appartiene, a partire dall'idea di una rivoluzione liberatoria di cui nessuno si chiedeva quale fosse il vero significato. Della Mongolia rimane invece l'odore pessimo di montone rancido che caratterizzava tutti i piatti tipici di quella terra, che è rimasta uguale nel paesaggio, ma è cambiato il contesto politico e conseguentemente quello sociale. 
Questo libro è stato scritto nel 1994, ed in parte è stato riscritto per Voland, con un ampio primo capitolo che fornisce un preciso quadro storico che definisce cosa siano i Paesi e cosa siano gli Stati. In questo modo il libro si arricchisce di una dimensione culturale che affascina maggiormente il lettore, ed il viaggio risulta più focalizzato. Lo stesso viaggio è stato fatto in un senso o nell'altro da altri viaggiatori, viene ancora una volta chiamato in causa Un indovino mi disse di Tiziano Terzani (lo aveva già citato Franco Cardini, e a questo punto me lo devo proprio leggere), e per la prima volta il viaggio di allora trae spunto e si confronta anche con i viaggi successivi. Percorrere quei Paesi in treno dà vita ad un viaggio lentissimo, che dura giorni e giorni, soprattutto allora; ma oltre al tempo vi è anche un altro elemento da tenere in considerazione, quello del teatro: i personaggi che si muovono all'interno del treno sono come degli attori.
Ecco dunque che prende la parola Massimo Loche, per raccontarci del tema di chi si incontra quando si viaggia; è un'esperienza che tutti abbiamo in comune, perché tutti costruiamo delle storie su coloro che incontriamo, e nascono storie che sono frutto della nostra immaginazione. Non tutte le storie sono felici, armoniose, leggere, possono essere anche abbastanza tragiche, ma non quelle che immaginiamo. Questi personaggi si collocano in una dimensione benevola. Agli occhi di Loche la benevolenza è la tinta dominante del racconto, la chiave attraverso cui il mondo esterno entra nello scompartimento del treno. Treno che è un gran bazar, un luogo dove si fa politica, perché il dato esterno entra prepotentemente nel vagone in apparenza isolato, attraverso i personaggi e i piccoli particolari che lo caratterizzano. Loche, dice Ezio Menzione, è bravo a coglierli e dotarli di senso


Massimo Loche vuole infine sottolineare che il suo libro non è un reportage, ma un un racconto di viaggio, perché altrimenti avrebbe dovuto verificare una serie di cose che invece ha preferito semplicemente ricordare: il racconto infatti non ha il vincolo della fotografia perfetta della realtà, e Loche ha preferito rielaborare i suoi ricordi, non aveva preso appunti: la memoria coglie l'essenziale, sfoglia via le cose. Ed è proprio attraverso i romanzi che si imparano tantissime cose di un Paese (e qui mi sciolgo: è uno dei miei Principi Portanti della Letteratura). L'incontro si conclude con una riflessione sul tema del viaggio: quando si torna si prova una sensazione paragonabile alla tristezza post coitum, ma allo stesso tempo vi è l'esaltazione pensando al prossimo viaggio che si farà. 
Il pubblico applaude estasiato, io faccio i complimenti a scrittore, relatore ed editrice, ma non posso andare con loro allo stand perché ecco che inizia già l'attesissimo incontro successivo. 

Tocca infatti a Morten Brask, scrittore danese accompagnato da Bruno Berni, uno dei più fini traduttori dalle lingue nordiche. La relatrice (di cui mi sono persa il nome, e mi scuso tantissimo) cita il fatto che insegni lingua danese all'Università di Pisa, ed io ho un tuffo al cuore: ma come, hanno riattivato l'insegnamento di Lingue e Letterature Nordiche? Ma è pazzesco! Dovete sapere che parte della Triste Storia della Mia Vita è segnata dal taglio di questo corso nel 2010, quando io mi trovavo a Copenhagen con una borsa di studio in modo da tornare alla Specialistica mega carica e dedicare il mio futuro a questa lingua. E invece no, lo tagliarono ed io piansi tantissimo. Ma bando ai brutti ricordi, è il momento di entrare nel mondo di William Sidis, il protagonista, realmente esistito, del romanzo di Morten Brask. Come dice la relatrice, è una di quelle storie che rimangono a lungo nel cuore dei lettori, la storia commovente di una delle menti più eccelse di tutti i tempi. William Sidis era un bambino prodigio, che però viveva nella solitudine più completa: fin da bambino era braccato come una sorta di fenomeno da baraccone, ed era sempre fuori luogo e fuori tempo, trattato da adulto da piccolo e poi come un bambino quando i genitori lo fecero internare dichiarandolo mentalmente instabile. La parabola di quest'uomo rappresenta in realtà il destino di tutti noi, costretti fra il nostro modo di essere unico ed irripetibile e le aspettative degli altri, i doveri soverchianti che ci schiacciano. 
(E qui c'è il momento di maggiore commozione del Festival: Morten Brask parla in danese, Bruno Berni fa la traduzione consecutiva, ed io piango tantissimo, ma con i lacrimoni proprio, incurante di essere circondata da altre persone. Non lo so, a un sacco di gente questa lingua fa schifo, ma a me fa questo effetto. Ho il cuore che mi scoppia, ma cerco di riprendermi ed ascoltare ciò che viene detto. Ce la puoi fare, Bea!). Lo scrittore è d'accordo con la definizione che viene data di William Sidis, perché è vero, contiene in sè molte facce di ciò che siamo. Anche se aveva un'intelligenza fuori dal normale, era una persona umile, il contrario di ciò che abbiamo oggi in Occidente. William Sidis aveva davvero qualcosa da offrire. Oltre a ciò, aveva una forma di modestia che riguarda anche una scelta: non essere ciò che ci si aspettava da lui.
All'interno del romanzo vi è anche un'altra parabola, quella del Novecento, che parte dalle speranze di inizio secolo per poi finire nella tragedia della Guerra, dall'America dei grandi salotti all'America postbellica. Morten Brask confessa che in William Sidis ha trovato affascinante proprio l'essere nato alla fine dell'Ottocento, al pari di altri personaggi che sono i suoi eroi letterari: una parte del loro fascino consiste proprio nell'appartenere contemporaneamente a due mondi, l'essere creature ibride. Quando è nata la psicologia moderna si trattava solo di una branchia della filosofia, poi arriverà l'era che vedrà la nascita e lo sviluppo delle teorie freudiane. Nel romanzo è presente anche William James, fratello dello scrittore Henry James, nella veste di padrino di William Sidis! Il padre era un eminente psicologo e psichiatra, e William Sidis sarà una vittima dei padri e delle teorie di William James. 


Il romanzo pone dunque spunti su cultura e umanità, ragione ed emozione, sapere e sentire, continua la bravissima relatrice. Al tempo vi era un intenso dibattito culturale sulla superiorità educativa di tipo classico, e dunque chiede a Morten Brask se sia necessariamente vero che l'educazione rende gli uomini migliori, dal momento in cui William Sidis, dal punto di vista emotivo, era un analfabeta. Lo scrittore danese risponde che ci sono diversi aspetti da considerare a proposito di tale questione. In psicologia si separava in modo netto il sentimento dalla ragione, ma c'è dell'altro: William Sidis era probabilmente, in piccola percentuale, affetto dalla Sindrome di Asperger, ed aveva quindi difficoltà ad orientarsi e a comprendere il mondo. Il bambino affetto da questa malattia deve essere aiutato a capire l'universo che lo circonda, ma nessuno aveva insegnato a William Sidis come ci si doveva comportare. Da questo punto di vista il libro mostra tale separazione: William Sidis cerca di interpretare il mondo in modo razionale, dal momento in cui gli mancava la parte emozionale.
Si passa infine ad una domanda più generale rispetto al genere a cui appartiene il libro di Morten Brask, la biografia romanzata. La parola passa quindi a Bruno Berni, che spiega come questo filone sia nato in Danimarca negli anni Ottanta, e che i danesi ne vadano pazzi. In Italia sta cominciando a prendere piede solo ora, e comunque in maniera diversa rispetto a come il fenomeno si è sviluppato nel paese scandinavo; in tal proposito Bruno Berni cita Henrik Stangerup come punto di riferimento imprescindibile, ed ecco che arriva il momento carramba che sorpresa, perché Morten Brask interviene dicendo che proprio a lui si è ispirato per scrivere il suo romanzo, essendo Stangerup uno dei suoi eroi! Evviva! Ciò che lo affascinava di tale scrittore era la capacità di mettere in luce le vite degli altri, parlare di personaggi così lontani in maniera tale che il lettore riuscisse comunque a rispecchiarvisi è un qualcosa di assolutamente straordinario. E allora ha cercato di fare la stessa cosa nel suo romanzo. 
Bruno Berni prosegue poi la sua incursione nella letteratura danese, spiegando che negli ultimi decenni, grazie alle ondate di giallo nordico, sta penetrando sempre di più anche in Italia. Una volta l'assenza di mediatori (è così che definisce i traduttori) era molto più percepibile, adesso invece la presenza di "ambasciatori culturali" fa in modo di far conoscere e di leggere anche cose che non siano gialli, ma la stessa letteratura che leggono i danesi. Si traduce anche molta poesia, e questo vuol dire che si sta attingendo agli strati profondi della cultura. Per quanto riguarda poi la letteratura italiana in Danimarca, Bruno Berni ricorda che ha conosciuto Giorgio Faletti proprio a Copenhagen. 

Si chiude così anche questo bellissimo incontro. Io seguo avidamente Bruno Berni, ringraziandolo per aver riportato il danese a Pisa, e poi sfoggio il mio danese forbito con Morten Brask, dicendogli che volevo un panino col pollo (Jeg vil gerne have en sandwich med kylling). L'ho fatto ridere abbestia, e mi ha scritto una dedica puciosissima in danese. Felicità a livelli massimi.

Sono estremamente prolissa, lo so. Ma non trovo la maniera di raccontare altrimenti queste giornate di gioia allo stato puro. Abbiate pietà e pazienza!

B.                        

2 commenti:

  1. Prolissa o no, mi hai comunque fatto venire una gran voglia di leggere il libro di Morten Brask ;-)

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    Risposte
    1. Ale, tu sì che mi dai soddisfazioni :-D! Da come lo hanno presentato dev'essere davvero bello...

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