martedì 21 ottobre 2014

5. Carlo Bernari, Tre operai

Avvertenza: sto per tirarvi un pippone allucinante. Poi non dite che non vi avevo avvertito. 

Goffredo Fofi recensisce l'ultima edizione di Tre operai di Carlo Bernari, uscita nel 2011 per merito di Marsilio, che ha curato una collana di tascabili interamente dedicata al Novecento italiano. Applausi. Io ho però letto il romanzo in una vecchia edizione Mondadori, anzi in due: quella del 2005 e quella 1975, ovviamente la mia preferita: pagine ingiallite e odore di storia. Tre operai è il romanzo d'esordio (e a detta di tutti, il migliore) del buon Carlo Bernari, che in realtà di cognome faceva Bernard perché la sua famiglia era di origine francese. Ma lui è nato a Napoli, ed infatti si inserisce a bomba nel filone dei meridionalisti. Questo romanzo è frutto di diverse riscritture, ed esce nel 1934 per merito di Cesare Zavattini, a cui l'autore dedica appunto le sue sudate carte, perché era stato l'unico che ci aveva creduto abbestia. E a ragione, aggiungo io! Per i temi trattati il romanzo fu curiosamente male accolto dal regime fascista, che ne vietò la diffusione. Fine dei cenni storici.

Al ginnasio avevo un curioso professore di italiano leggermente affezionato al Neorealismo; come conseguenza, io, i miei compagni ed intere generazioni di studenti, alla tenera età di quattordici-quindici anni ci siamo sparati libri leggeri e scorrevoli come Fontamara di Silone, Gente in Aspromonte di Alvaro, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Roba che andava giù come niente, insomma. Dopo Fontamara (tanto tanto amore) ho attraversato un periodo di disagio infinito (toh!) e quindi ho un attimo perso le fila della questione, ma dentro di me ormai si era sedimentata la passione per quel tipo di letteratura, che ho continuato a coltivare in anni più felici. Metello, Il sentiero dei nidi di ragno, La ciociara, Uomini e no, solo per citare alcuni dei capisaldi della mia biblioteca. Insomma, tutto questo per dire che ho letto Tre operai con gioia, trionfo e nostalgia.

Si tratta di una storia dove (stranamente) il disagio regna sovrano. È un disagio triste, cupo, che ti si attacca ai vestiti e non concede niente. I tre operai in questione sono Teodoro, il protagonista, Anna, uno dei personaggi femminili più ben delineati della narrativa italiana contemporanea, e Marco. Si incontrano inizialmente in una lavanderia industriale di Napoli, tra i fumi tossici, i macchinari antiquati e le speranze represse. La città stessa è lontanissima dai ritratti paesaggistici che ne erano stati fatti fino ad allora, ed assume invece il carattere della metropoli che ti opprime e ti risucchia, dove piove costantemente e tutto appare slavato e malinconico. I tre personaggi vi si muovono e ne sono respinti, tant'è che cercheranno di fare fortuna altrove, Teodoro e Marco a Taranto, per poi passare anche dal fronte, ed Anna a Roma. Alla fine però si ritroveranno a vivere tutti insieme, in una misera casetta fuori Napoli, sprofondando sempre più nella desolazione e nel baratro. In mezzo, i dissidi interiori sulla lotta di classe, la rivoluzione operaia, l'occupazione delle fabbriche del 1921; l'ascesa del regime fascista, l'impossibilità di combattere, l'immobilismo come condizione esistenziale. Teodoro vorrebbe solo essere libero, ma nemmeno lui sa cosa sia questa libertà tanto aspirata. Anna muore, divorata dalla malattia, e la sua morte è «un emblema disperato di solitudine» [Geno Pampaloni].

Oltre alle tematiche affrontate, che hanno contribuito a designare Tre operai come romanzo anticipatore del Neorealismo (anche se in questo caso i personaggi non incarnano nessun ideale di progresso, non sono eroi positivi, bensì poveri cristi), la novità di Bernari è quella di utilizzare una struttura narrativa nuovissima per l'ambiente letterario italiano (retaggio della sua giovinezza passata a fare scorribande negli ambienti avanguardistici parigini): la terza persona, infatti, concede delle incursioni nella mente di Teodoro, facendoci assaggiare dei pezzi di monologo interiore che costringono ancora di più a fare i conti con la vita spezzata, ansiogena e senza direzione del protagonista. Bernari però trova lo spazio anche per commoventi momenti di lirismo, che lo avvicinano comunque al Decadentismo ancora dominante in Italia.

Se ancora non si è capito, questo romanzo va letto assolutamente, perché è parte integrante del nostro dna, perché è inspiegabilmente poco conosciuto, perché è come ricevere uno schiaffo dritto in faccia, tante sono le riflessioni che porta a fare sull'Italia di oggidì. Vi lascio con un tocco sentimentalista e di parte, tratto dalla Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno scritta da Calvino nel 1964 per una nuova edizione del suo primissimo romanzo, uscito nel 1947.

Il "neorealismo" non fu una scuola. (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. [...] La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci rimproverarono di essere gli allievi diretti o indiretti. 
In sintesi: 

  • Paese: Italia.
  • Prima edizione originale: 1934.
  • Data recensione Fofi: 22 settembre 2011.
  • Pagine: 207.  
  • Periodo di lettura: 27-31 dicembre 2013.
  • Consigliato: abbestia

B.

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